martedì 9 febbraio 2010

Post #17, The year of the Tiger

Provateci anche voi. E' facile, lo facevamo sempre da bambini. Appoggiate gli indici alle estremità delle palpebre. Premete un pò e tirate forte verso l'esterno. Ora guardatevi allo specchio. Bene. Adesso sapete com'erano.
Erano tutti così.


La chiave è la tastierista. E' cinese, e milita da tempo nell'organizzazione di eventi come questo. Una di quelle cose a cui i cinesi tengono tanto. Quelle grandi cerimonie piene di musica, giochi e anacardi.
Sono le 4.40. Una macchina di grossa cilindrata mi aspetta sotto il portone. Scendo di fretta (fretta italiana, si intende), con me ho la mia chitarra. Sì, la mia chitarra acustica senza custodia, che son costretto a portare a mano.
Entro in macchina. Sono l'unico con gli occhi occidentali. Quasi mi sento a disagio.
Il guidatore è bassino, sembra giovane. Mi dice di allacciare le cinture. Punta verso l'acquario, il posto è li vicino.
Arriviamo con leggero ritardo. Gunar è già li, che aspetta sul palco con il suo mandolino fra le braccia. Ci sono problemi con i cavi, e sembra che l'acustica non sia un granchè. Pazienza, ci si tira su le maniche e si fa il possibile.
Intanto il tempo scorre, e la serata comincia. La gente inizia a prendere posto. Le luci calano. Silenzio. Dal proiettore arriva un fascio di luce. Sullo schermo scritte incomprensibili, disegni eccentrici in accoppiamenti di colori estremamente kitsch.
Un non-so-cos'è-ma-sembra-un-orso-strabico fa una breve introduzione di quello che sta per succedere.
E' il capodanno cinese. Buon anno della Tigre.


Ve lo immaginate? Salire su un palco ed essere guardati da trecento occhi a mandorla. In uno stanzone grande e buio, addobbato con mille cianfrusaglie rosso-dorate. E noi cinque lì, con gli occhi consumati a dover remare contro una tempesta di flash. Si perchè da bravi cinesi sono tutti con le loro macchinette in mano.
Pensavo alla mole di informazione prodotta in una sola sera. Saranno state scattate almeno 100 terabytes di fotografie... ma questi sono solo numeri, e i numeri, si sà, sono più noiosi delle persone.

Continuo con le persone, quindi. Con noi, in particolare.
E' musica occidentale quella che proponiamo, una band che a vederla non le daresti un soldo bucato (nb: le corone norvegesi sono bucate!). Due chitarre acustiche, un mandolino, un'armonica a bocca e una tastiera dai suoni finti. Questo non è un gruppo, è una caricatura di una banda di paese!
E invece il risultato è più che gradevole, e i cinesi vanno totalmente in visibilio. Alla fine dell'esibizione regalano a ognuno un pupazzetto stile souvenir ristorante cinese. Lo accetto volentieri. E' pur sempre qualcosa da mettere in una stanza ancora troppo vuota.


E intanto i giorni passano in fretta, fra una pattinata sul ghiaccio e una guerra di palle di neve... proprio come in Italia insomma!
La jam session della domenica sera è diventata un appuntamento fisso e tantissime persone cantano e suonano le loro canzoni. Il film del martedì è sacro, e nel weekend non si torna mai a casa prima delle 5 del mattino.
Le cose sembrano procedere bene. Forse qualcos'altro bolle in pentola, ma per ora preferisco chiudere qui.
Un freddo abbraccio dal nord. brrrrrr







giovedì 4 febbraio 2010

Post #16, giorno 30

Ok, lo so, siete stanchi di sentir parlare sempre benissimo di questa città. Ma anche Bergen, come tutto il resto del mondo credo, ha i suoi lati negativi.
Per esempio, la vita è cara. Anzi, di più. L'abbonamento dell'autobus costa oltre 40 euro al mese, con riduzione studenti intendo. E al supermetcato sei costretto a comprare la marca più infima, rischiando di avvelenarti ogni volta, perchè proprio non puoi permetterti di comprare altro. Non parliamo degli alcolici poi. Una birra in un pub può costare anche 10 euro. Si, esatto, 10 euro una cazzo di pinta. E' proprio per questo che abbiamo preso qualche decisione importante nell'ultima settimana.
Io, Tappo, Dario, Andreas e Trystan stiamo facendo la nostra birra. 22 litri di birra fatta in casa, con le nostre mani.
Riposano nella stanza di Tappo, e gorgogliano tutta la notte aspettando di finire la fermentazione.
E' l'unica soluzione qui e, come già accennavo, non siamo i soli a farlo. D'accordo, la qualità non è chissacchè, ma è pur sempre birra dopo tutto.

Ce ne sono anche altri. Di lati negativi intendo. Ma ora sono troppo preso da quelli positivi, mi spiace. Forse tra qualche mese riuscirò a parlarvi in maniera imparziale di questo posto, e scoprirete che, in fondo, non è tanto diverso da tutte le altre città.

Passiamo ad un lato positivo adesso.
Bergen è davvero la città della musica. C'è musica ovunque, e tutti sembrano saper suonare. Ieri sera, per esempio.
Ero in questo posticino vicino il mercato del pesce, un pub in legno con le sedie scomode e i tavoli in penombra. Il mio genere di locale, insomma. E un trio jazz suonava classici in maniera davvero sublime. D'un tratto un tale inizia ad avvicinarsi alla band. Sarà stato un ragazzo sulla trentina, alto due volte me, grasso e sudato, con in mano un boccale di birra unto del suo sudore. Noi rimaniamo in silenzio, ad osservare la scena. Così questo tizio afferra il microfono e fa quello che non ti aspetteresti mai che faccia un personaggio così. Canta. Ma non come un ubriaco o come qualsiasi altra persona normale. No. Lo fa divinamente. Con una voce profonda che ricorda le voci nere del jazz americano. Cazzo!

Rimaniamo di stucco. Tutti quanti.
Con me c'è una ragazza spagnola di madre africana. Scrive su un taccuino. Questa musica la aiuta a vagare con la fantasia, la aiuta a produrre pensieri. E non vuole lasciarli scappare questi pensieri. Così scrive, scrive, e la penna si muove a ritmo della musica, scivolando sui tasti neri e i tasti bianchi del pianoforte, infilandosi fra le dita del contrabbassista, saltellando da un piatto all'altro della batteria e facendosi cullare dalla voce di quell'angelo grasso e ubriaco.
E poi c'è Pavla alla mia sinistra.
E' arrivata da poco e inizia a parlarmi di una cosa stupenda... mi descrive il giorno del suo funerale. Un prato immenso, musica gitana, gente che beve e si diverte. Cazzo è proprio come vorrei che fosse il mio. E poi il suo corpo nudo nella terra. A seguire un antico rituale indiano. Un seme in bocca. Un albero in divenire.
Ve lo immaginate? Essere lì, distesi su un letto di terra, sotto coperte di terra, insomma, terra ovunque. E insetti, e altre cose. E questo piccolo seme nella vostra bocca, che, piano piano, giorno dopo giorno, cresce. E il tuo corpo sono le sue radici. E il suo corpo è il tuo nuovo corpo.
Dicono sia come rinascere. Come se la tua anima trasmigrasse nell'albero.
Non so se lo farei anch'io. Metti che piantano un cactus poi?

domenica 31 gennaio 2010

Post #15, giorno 28

Vi sarebbe piaciuto molto. A tutti quanti.

E' andata più o meno così:
Fuori nevica. Tanto, tanto, tanto. C'è mezzo metro di neve, e ci si possono fare i pupazzi. Siamo indecisi se uscire o no. Ma poi qualcuno parla di una casa in centro, una jam session, e qualcos'altro. Ci facciamo trascinare, e in 10 minuti siamo fuori. Nella neve. A giocare come i bambini.
E così si va al centro, vicino Bryggen.
Una casa favolosa. Enorme, in legno. Vi sarebbe piaciuta molto, a tutti quanti.
Il proprietario è un ragazzo che vive qui. Ha i dreadlocks fin sotto le spalle, credo sia africano. Ci invita subito a salire al secondo piano, la festa è li. Parlano tutti fluentemente tre lingue: norvegese, inglese e spagnolo. Sono molto simpatici, e ci sentiamo subito a nostro agio. Si balla per un pò, c'è buona musica. Si mangia dolci fatti in casa, a base di cannella come tutti i dolci qui, e si beve quello che si trova.
Poi la musica finisce. Ci sediamo tutti a gambe incrociate sul grande tappeto al centro della camera. E aspettiamo in silenzio. Arrivano quattro ragazzi, e la festa inizia davvero. Uno alla chitarra, uno al basso, un percussionista. E una voce. Incredibili. Suonano come professionisti, ma lo fanno per passione. Iniziano con un paio di pezzi lenti, poi la musica si fa più convolgente. Ritmi lontani, che percuotono i nostri corpi con violenza. L'unica difesa è ballare. Ballare su quelle percussioni tribali, su quei bassi sud-americani.
Hanno già suonato alcuni pezzi e adesso il microfono passa al percussionita. E' magrolino, bassino, e non ci scommetteresti nulla sulle sue doti canore.
E invece è proprio lì la sua forza. La sua v-o-c-e.
Rimango impietrito.
C'è Jimi Hendrix dentro il suo petto che grida la sua libertà, ci sono i Dire Straits ed Eric Clapton, gli AC/DC e Joe Cocker e Neil Young e anche un pò di Captain Beefheart cazzo!
Vi sarebbe piaciuto. Molto.

Pausa sigaretta. Mi avvicino a quel ragazzo sud americano così bravo a cantare. Gli chiedo se ha un gruppo. Dice di no (!). Dice che ha una "big family". La chiamano così. Sono musicisti da tutte le parti del mondo. Una grande famiglia. E quando qualcuno della famiglia ha bisogno di un musicista non fa altro che chiedere. E così vanno in giro sempre con formazioni diverse, improvvisando, ma facendo invidia ai professionisti.
La musica continua tutta la notte. E si intervalla con altri musicisti. Sul palco sale un ragazzo norvegese. Canta alcuni pezzi rock, totalmente rifatti, reinventati da lui. Li canta con una voce sottile, ma intensa allo stesso tempo. Fa venire da piangere.
E poi ancora, è il turno di una ragazza peruviana, canzoni tipiche delle sue terre. E, di nuovo, una voce assolutamente indescrivibile.
Tutti i migliori musicisti di Bergen riuniti in una casa. Al caldo della musica, mentre i finestroni sul tetto spiovente sono coperti di neve.
Questi ragazzi non hanno bisogno di dimostrare al mondo il loro talento. Non gli interessa. Suonano perchè se lo sentono dentro. Cantano perchè è quello che li fa andare avanti. E preferiscono farlo nei posti familiari, nelle case, nelle piccole feste, con i loro amici.

Ne sono più che convinto. Vi sarebbe piaciuto molto. A tutti quanti.

giovedì 28 gennaio 2010

Post #14, giorno 24

Fermate il tempo!
Qualcuno fermi il tempo, vi prego!
Cosa ci faccio alle 4 del mattino a ballare in una stanza vuota, piena solo di candele e bottiglie finite.
E perchè questa musica? E perchè proprio io?

E' una delle specie più rare. Vengono direttamente dal Madagascar. Li tiene in una scatola di cartone, con due fori sul coperchio. Sono proprio sotto le bottiglie di birra. Non immagineresti mai che sono lì.

Il corridoio è pieno di gente. Gente che fuma, che corre, che fa l'amore. Il corridoio è pieno di birra, anche. Ma quella rimane li, sul pavimento, e sui nostri calzini.

Non so perchè ha tutte quelle piante in camera. E poi ha quella scatola. La scatola degli insetti. Non lo so. Ma mette buona musica. Continuo a muovermi, a dimenarmi come un forsennato, senza nessun motivo. E più vado avanti, e più le mie percezioni ritornano chiare. E già riesco a sentire gli odori, il sudore, la birra, il formaggio norvegese (sempre presente!).

E dalla mia camera sento ancora i bassi che mi fanno risuonare le budella.
Mi guardo intorno. Sono solo. Che fine ha fatto la birra, il sudore, il formaggio norvegese?

E le tue calze rotte?

martedì 26 gennaio 2010

Post #13, giorno 23

Ieri notte, parlando con due ragazze Polacche molto simpatiche, ho scoperto che "si", nella loro lingua, si dice "no". Non nascondo che la cosa mi abbia lasciato un pochettino perplesso, e così mi è venuta in mente una storia. Eccola qua.

C'era una volta un paese. Non è importante dove, sappiate solo che c’era, questo paese.
E nella lingua locale di questo paese, la parola amore e la parola odio venivano scritte e pronunciate nello stesso modo.
Così, quando qualcuno si sentiva dire questa parola, non poteva mai essere certo se era amato o era odiato.
Col passare del tempo l’insicurezza nei rapporti sociali cresceva, e gli abitanti del paese passavano la maggior parte del tempo isolati, chiusi nelle loro case e senza scambiare parola con nessuno. La situazione divenne così drammatica che la sopravvivenza stessa del paese sembrava messa in discussione, non essendoci nuovi matrimoni e, dunque, nuove nascite.
Un giorno, un linguista del posto, propose di cambiare questa parola, sostituendola con due parole differenti. Così organizzò un'assemblea generale, per mettere definitivamente fine a questa bizzarra quanto drammatica situazione.
Ma il caso volle che la parola “sostituire” significasse, nella lingua del paese, anche “disprezzo”. Così, quando il linguista disse di voler sostituire la parola esistente, la platea pensò di essere disprezzata e andò su tutte le furie. La gente iniziò ad aizzarsi contro il povero linguista tirando sedie e quant’altro, finchè, il poverino, non stramazzò al suolo esanime.

It's a hard life folks.

sabato 23 gennaio 2010

Bergen, Parigi, Valencia, Alicante e ancora Bergen.

La cosa che più mi manca di casa è il poter andare via, di casa. Poter correre alla stazione nel cuore della notte e prendere il primo treno per andare lontano. Ma sono già lontano, e quel treno l'ho già preso. Cos'è cambiato? - chiederete voi. Tante cose. Ma nessuna in particolare. Non mi sento più libero. Niente affatto.

E adesso continuo a viaggiare. Anche da solo.

Viaggiare da solo è un'esperienza particolare. Ho detto 'particolare' non triste. Anzi, a tratti è anche divertente. Sei lì, in aereoporto, nella terra di nessuno. Legalmente lontano da ogni giurisdizione. E c'è tanta gente con te, e anche se per poco, hanno tutti il tuo stesso destino.
Strano come il punto d'intersezione delle nostre vite possa essere una scatola di metallo da 2000 tonnellate con le ali.

E così, la mattina del 21 gennaio, per qualche imprecisato motivo, Pietro Cavallo si trova a vagare negli enormi saloni d'attesa dell'aereoporto di Parigi.
La sera dello stesso giorno, sempre per qualche imprecisato motivo, attraversa le porte scorrevoli dell'aereoporto di Valenica e prende il treno metropolitano fino al cuore della città.

C'è a stento il tempo per una doccia.

Cena di gala: trecento persone, piatti grandi ma porzioni piccolissime, pathè d'oca, paella alla valenciana, camerieri che ti versano il vino ogni volta che il tuo bicchiere è vuoto. E poi tanti pesci. Uno dei posti più rinomati della città, proprio sotto l'immensa struttura che ospita l'acquario di Valencia. Un ristorante con le pareti di vetro e migliaia di pesci che ti girano intorno. Senza dubbio impressionante. Come il prezzo d'altronde, che, per mia fortuna, posso solo tirare ad indovinare quale sia stato.
Ed ecco che arriva la prima sbronza spagnola, seduto al tavolo con ricercatori di tutto il mondo. Un tedesco che fa della facile ironia sulla politica di varie nazioni, un francesce che parla più di dieci lingue, un cinese che non ne parla bene neanche una..
E' iniziata così la mia prima esperienza ad una conferenza scientifica internazionale: BIOSTEC 2010 - Valencia.



Tre giorni. Solo tre giorni. Ma tre giorni davvero intensi, pieni di eventi chè si susseguivano senza lasciarmi respirare, compressi come sardine in scatola.
E anche io mi sentivo come una sardina in scatola, compresso in un abito elegante che non sono affatto abituato a portare, e che mi fa sembrare goffo e ridicolo. Ma era l'unico scudo, l'unico schermo fra me e loro. Fra me, e una platea di centinaia di ricercatori, che ascoltavano le mie parole, in una lingua che non è nemmeno la mia.

E poi la città nuova, i palazzi enormi/imponenti/mastodontici/inarrivabili, strutture architettoniche alla guerre stellari, un contrasto importante con la Valencia antica. Quanto lontano devi andare, per vederli per intero?



Ma la bulerìas continua, e la mia sera si perde in una cucina tipica - gestione familiare, paella indescrivibile, vino locale che aiuta i pensieri. Ingrid è una dottoranda francese in storia medievale, parla l'italiano come fosse la sua prima lingua, ma io la prendo in giro perchè lo fa con un accento spagnolo. Serata bellissima, ancora una volta mi sento davvero a casa*.

Torno in albergo, ma non mi va di dormire. E allora mi perdo nella vita notturna con un ragazzo rumeno che condivide la stanza con me. Le ultime ore della notte scorrono via come gocce di un rubinetto lasciato a perdere. Lui, il ragazzo rumeno, parla spagnolo molto bene. Io invece, parlo un ottimo "itagnolo" che da bravo italiano non mi vergogno di sfoderare.

6 di mattina. 6.30 sul mio cellulare, sul mio fusorario. I miei coinquilini dormono. Io vorrei. Ma non c'è tempo. Si va ad Alicante. Si punta il dito verso Bergen.



*Solo una precisazione. Dico spesso di sentirmi a casa, ma quando sono davvero a casa mia non mi sento affatto "a casa". Quindi non assegnate alle mie parole un connotato spaziale, ma cercate di associare questa frase ad uno stato d'animo: il sentirsi capito, l'essere a proprio agio.

lunedì 18 gennaio 2010

Post #12, giorno 14


Non scriverò per un pò. Ho mal di denti. E sapete, quando hai mal di denti è tutta un'altra storia. Vivere, intendo. Non si pensa ad altro che a quando finirà quel dolore, quel martello insopportabile che trapana i tuoi pensieri.
E lo si vede bene anche in quello che scrivi. Ho riletto il post di ieri e ho pensato: "Cazzo, posso leggere il mio mal di denti".
Così per oggi mi limito solo a dirvi che ieri sera ho fatto la prima performance musicale qui a Bergen. Nel club del dormitorio. Abbiamo fatto una jam session e ho sunato con un chitarrista Peruviano, una tastierista Cinese e uno strumentista Norvegese.
Era tanto che non suonavo in pubblico. Mi ha fatto stare bene. Mi sono anche dimenticato il mal di denti. Per un pò.
Ah, per chi proprio fosse curioso, mi sono usciti due denti del giudizio. Proprio così, tutti e due assieme. Ouch.

domenica 17 gennaio 2010

Post #11, giorno 13

La penna fa strani movimenti sul foglio. Scarabocchi, niente di concreto, o almeno è quello che direi. Vedere l'inchiostro arrotolarsi su se stesso, soltanto ghirigori per un osservatore disattento. E invece la colpa è mia, che non ho accesso a quel mondo semantico che si cela dietro i simboli incomprensibili, i simboli che Solimar sta scrivendo in quel momento.
C'è sola una promessa, ma dopo tutto è importante. Io gli insegno a suonare la chitarra, lui mi insegnerà l'arabo.

Eh si perchè poi, alla fine, la chitarra l'ho comprata. Proprio in quel negozietto, quello con i corridoi pieni di oggetti antichi messi alla rinfusa. Ma non avevo abbastanza soldi per comprare anche una custodia, e così vado in giro con la chitarra avvolta in una bustaccia di plastica nera fissata con dello scotch marrone. Non ha una bella apparenza ma almeno fa il suo dovere.

In questo periodo rimango notti intere a parlare con Solimar, il mio coinquilino. Mi chiede consigli sulle ragazze italiane. Su come comportarsi, come apparire. E' divertente, e lo è ancora di più perchè io non sono di certo la persona più adatta.
E faccio lo stesso con lui, gli chiedo delle donne del suo paese, delle loro tradizioni. E allora lo perdono se i miei vestiti sono pregni dell'odore di cucina indiana.
Ma perchè cazzo lascia i fornelli accesi tutto il giorno? Non ne sono sicuro ma credo cucini ogni due ore. Proprio così, ogni due ore fa un piccolo pasto. Fritto, ovviamente, e con tante spezie, così che la casa odora come un fastfood indiano aperto 24 ore su 24.

Stasera l'ho visto anche al club del dormitorio. Sedeva assieme ad altre persone, mentre io ballavo. Credo facessi proprio schifo. A ballare intendo. Lo capivo dal fatto che le ragazze ridevano e mimavano le mie mosse goffe.
Ma io intanto continuavo a ballare incurante, un pò per l'alcol, un pò perchè davvero non mi interessa un granchè di cosa pensano gli altri del mio modo di ballare e di muovermi.

E intanto stanotte, sotto la luce fioca della cucina, che a stento illumina il tavolo di legno, insegno a Solimar come dire ad una ragazza che "ha dei begli occhi". E chi passerà per questi corridoi sentirà un accozzaglia di Urdu ed Italiano, due lingue tanto lontane, che fanno a botte fra loro nella stanza 352, che è anche 350.

sabato 16 gennaio 2010

Post #10, giorno 12





Adesso qualcuno sarà contento.... :)

martedì 12 gennaio 2010

Post #9, giorno 8

Ho aperto la porta della cucina. Tiziano aveva una grossa teglia di pasta in mano. E' iniziata così questa notte.
La stanza era sovraffollata. Ottanta, forse cento persone, da ogni parte del mondo, tutte riunite in una sola camera. Tutte in una sola cucina.
Sembra strano. Si, pensateci bene, tutti hanno fatto migliaia di chilometri, sono venuti da ogni dove, e alla fine, alla fine del loro viaggio, si ritrovano in una cucina. Il capolinea dei loro percorsi, il traguardo di ognuno di loro, un luogo sacro, legato al più importante dei bisogni primari.
Ed ecco che la cucina viene elevata all'ennesima potenza, viene esplosa in più dimensioni, proiettata su infiniti piani, passando da luogo quotidiano di ritrovo familiare a crocevia di culture e paesi, di gente e di storie lontane, diventando quasi una caricatura della cucina stessa.

E' così che inizia l'"international dinner", una serata piena di luci e colori, facce e accenti differenti, sorrisi e volti divertiti, volti annoiati, volti stralunati, volti ubriachi. Ognuno con il suo bagalio culturale, ognuno con la sua cosa più preziosa: il proprio cibo.
Ora immagina una grande tavola, piena di colori di ogni paese, piena di frutta e spezie esotiche, pietanze orientali e piatti occidentali. E tu non devi fare altro che allungare una mano per entrare dentro una cultura, dentro la tradizione di un posto lontanissimo, irraggiungibile, che solo in quel momento, in via del tutto straordinaria, diventa virtualmente e squisitamente possibile.

Adesso ho la pancia troppo piena per raccontare altro, per dirvi che ho conosciuto tante persone, che ho sentito racconti assurdi, che la cucina stava andando a fuoco, che sul tavolo c'erano dei biscotti terribili nel cui impasto era stato messo il sale al posto dello zucchero e che ci si sfidava a mangiarli, che i tedeschi mischiano la birra con la sprite, e che molti, la prima notte qui, hanno pianto.
Spero di rincontrare le persone che ho conosciuto stanotte. Nel caso, vi farò sapere. Come sempre, che vi importi qualcosa, o no.

lunedì 11 gennaio 2010

Post #8, giorno 7

Oggi non ho voglia di scrivere. Saranno le immagini a parlare per me... Ah, per chi voleva, c'è anche quel negozietto...










domenica 10 gennaio 2010

Post #7, giorno 6

Sapevo che mi era mancato qualcosa. Da bambino, intendo. Un giocattolo, un fratello, uno stato d'animo, una sensazione. Qualcosa. Ma fino ad ora, non ero mai riuscito a spiegarmi cosa.
Oggi invece, dopo una lunga ricerca, lo so.
Ero sulla cima. La città si vedeva a stento, i tetti bianchi delle case si confondevano con gli alberi e il resto. Ed io ero lì, ad aspettare il momento giusto, il momento per buttarmi.
La discesa non fa paura quando sei già in corsa, ma prima, da quell'altezza, di paura ne fa e anche molta.
Poi il momento arriva, e io mi lancio. E volo giù, veloce come non sono mai stato, o come non mi sono mai sentito. Si, perchè la velocità è una sensazione. E allora attraverso persone, alberi, colline. Veloce, veloce, veloce. Con il mio slittino.
E' stato lì che ho capito. Proprio mentre la neve mi andava in bocca, e la schiena mi faceva male.
Era quello che mi è sempre mancato. Ed ero felice. Come un bambino. Come un bambino con il suo slittino.

sabato 9 gennaio 2010

Post #6, giorno #5

Non posso morire assiderato.

Non posso morire assiderato.

Non posso morire assiderato.

Continuo a ripetermelo. Come se fosse vero.
Non ho i guanti. Non ho il cappello. Non ho la sciarpa. Non ho la calzamaglia. Non ho i calzini e le scarpe adatte. Ma non posso morire assiderato.

Mi chiedo cosa diavolo ci faccio alle due di notte, nel mezzo del nulla, circondato dalla neve, a salire una stradina ghiacciata, senza sapere nè dove andare, nè da dove sono venuto.
Non riuscirò a ritrovare quegli occhi orientali che ho perso nella notte.

Non posso morire assiderato. No. Allora entro in un club. Al caldo.
Le persone sembrano felici, la musica è buona. Le ragazze sono davvero molto bionde.
Con me ci sono altri ragazzi. Siamo tutti scesi dal Fantoft per andare in città, per cercare qualcosa di diverso stasera.
Con noi c'è Mike, un ragazzo alto, con i capelli lunghi che quasi nascondono i suoi occhi color ghiaccio. E' pallido in volto e sembra essere indifferente a qualsiasi cosa accada.
Si aggira per il locale con l'aria svampita, barcollando tra la gente. Poi si ferma.
Inizia a parlare con una ragazza in perfetto norvegese. Non capisco esattamente cosa dice, ma senz'altro qualcosa di molto divertente. La ragazza fa una grossa risata. Mike continua a parlare, e la ragazza sorride. E' il suo momento. Sta andando tutto secondo i piani. Poi la ragazza dice qualcosa. Aspetta un pò, ma Mike non parla. Rimane immobile. Muto. Lei ci riprova, ma nulla. Mike non apre bocca. Non capisce. Dio solo sa perchè, ma lui riesce unicamente a parlarlo, il norvegese.
E fa così con tutte. Inizia a parlare, loro ridono, poi gli rispondono e puff, lui stà muto, o cerca di carpire le loro parole, di farsi ripetere ancora una volta quello che hanno detto. Niente. La scena va avanti per parecchio. Dalla mia prospettiva è qualcosa di estremamente esilarante. Sorseggio una birra mentre mi godo lo spettacolo.

E' tardi, decidiamo di tornare a casa. Qui i mezzi notturni costano molto e non sono compresi nel normale abbonamento, ma non ci va di pagare 80 corone per una corsa. Però una soluzione c'è. Mike la conosce. Dice solo di seguirlo, di fidarsi di lui. Così arriviamo davanti ad "Ali Baba", uno dei tanti posti dove vendono Kebab anche di notte. Aspettiamo qualche minuto e si avvicina una macchina. Mike sfodera di nuovo il suo norvegese monoverso, ma stavolta non riceve risposta, per fortuna. Il tipo della macchina ci fa solo cenno di salire.
E' un taxi illegale. Scopro che ce ne sono molti qui. E' il mezzo più economico per spostarsi di notte. E funziona. Ci porta proprio sotto casa, la nostra casa, il Fantoft.
Non credevo che anche in Norvegia le cose funzionassero così. Ma, in fondo, tutto il mondo è paese.

venerdì 8 gennaio 2010

Post #5, giorno #4

Stanotte voglio cominciare dalla fine. Perchè credo che, in un certo senso, corrisponda ad un inizio.


#parte 2: Kitchen parties

Apro la porta della cucina. Dall'altra parte una ragazza bassina, con i capelli nero-tinto che le cadono sulla fronte, tutta improfumata e vestita a festa.
E' venuta anche lei al nostro party, che però sembra poco movimentato, e così decidiamo di andare nella sua cucina.
L'ascensore si ferma al diciottesimo piano, all'ultimo però, il diciannovesimo, non ci arriva. Bisogna salire le scale. E mentre le sali costeggi una piccola finestra, una feritoia su quel mondo innevato che c'è là fuori; quel mondo che ti sembra così distante da quell'altezza vertiginosa.
E così mi ritrovo a bere vino bianco, trasparente come acqua. Non lo puoi comprare, quel vino che è acqua. L'hanno fatto alcuni tedeschi. Hanno comprato il materiale, hanno passato un giorno in cucina e poi hanno aspettato. E ora lo stiamo bevendo. Quel vino che è acqua, ma che acqua non è, visto che la stanza inizia a girare.
Qui in Norvegia è l'unico modo per procurarsi una bevanda alcolica senza spendere una fortuna. Bisogna farsela da soli. E così le tante cucine del dormitorio si trasformano in vere e proprie distillerie per studenti.
Sho, il ragazzo giapponese seduto alla mia destra, è già ubriaco, e si addormenta sulla sedia.
Il kitchen party continua.

E' una tradizione ormai, qui al Fantoft, organizzare feste nelle grandi cucine in comune su ogni piano dell'edificio C-D. Li chiamano "kitchen parties". Piuttosto che uscire fuori, al freddo, si rimane nel dormitorio, vagando da una cucina all'altra. Come spettri che non hanno voglia di dormire. Come anime che infestano i meandri dello studentato.

Se ti trovi a camminare nei lunghi corridoi vuoti del Fantoft, la notte, bussa alla porta di una cucina. Una a caso, non importa. Ci sarà sempre qualcuno ad accoglierti. Qualcuno con un gran viso pallido e le guance rosse per l'alcol. Qualcuno con grandi occhi neri, profondi come la notte. Qualcuno che sta lavorando alla sua birra o sta facendo il suo vino. Non importa. Quello che conta, nei lunghi corridoi vuoti del Fantfot, è che non ti sentirai solo.



#parte 1: Dove finiscono le cose perse e mai più ritrovate

Il bianco della neve riflette il sole e fa male agli occhi.
La città di mattina è più bella che mai. Specialmente Bryggen, la parte antica. Una schiera di casette di legno del 1200, che sembrano resistere al freddo e alle intemperie molto meglio dei miei piedi, che intanto congelano dentro gli scarponi.
Ci arrampichiamo su per una collina, rischiando di scivolare sul ghiaccio. Siamo sulle mura della rocca, da cui si vede il porto commerciale. Anche le navi sono innevate. Continuiamo per un ponte, che sembra sospeso nell'aria. La montagna è ovunque intorno a noi. Ci circonda. Ci possiede.
Scivoliamo giù e ci ritroviamo su Ovregate, una strada larga che sembra continuare per molto ancora.
E' li che lo troviamo.
Un piccolo negozio, o almeno così ci appare. Decidiamo di entrare.
Capisco subito che si tratta di un posto magico. E' il posto che ho sempre cercato. E' il posto dove finiscono gli oggetti dimenticati, persi e mai più ritrovati.

A volte capita di non usare più un oggetto per lungo tempo. Ti dimentichi quasi della sua esistenza. Poi, un giorno, ti svegli e ti chiedi che fine abbia fatto, dove sia andato.
E così ti metti a cercare. E cerchi dappertutto, negli angoli più remoti della tua casa, sotto il divano, sopra i mobili. Ma nulla, non lo trovi più.
E' forse lì che ricompare, in quel negozietto di Ovregate, come se attraversasse un portale dimensionale per materializzarsi in questa minuscola bottega, dai corridoi stretti, con una densità di oggetti da fare invidia alla popolazione cinese.
Per visitarlo tutto c'è bisogno di farsi largo con le mani fra le cianfrusaglie, calpestando qualcosa, arrancando fra vecchie riviste, vinili rotti, cappelli e vestiti impolverati, e bellissimi giocattoli di legno.
Fra le tante chincaglierie, ce n'è una in particolare che attira la mia attenzione. E' un basso elettrico. E' pieno di polvere e ha le scritte sulla paletta cancellate dal tempo. Vorrei conoscere la sua storia.
Il tipo del negozio mi chiede se voglio comprarlo. Costa milleduecento corone. "Non ora" - dico. Non ora...

mercoledì 6 gennaio 2010

Post #4, giorno #2

bianco



calma



tetti a punta come nelle fiabe




il paradiso.



La prima cosa che ho visto è stata la neve.
Un'intera città ricoperta di neve. Le strade, le macchine, i laghi, anche le persone.
C'era neve ovunque.
E subito ha iniziato a nevicare anche nei miei pensieri; e così le strade, le macchine e il traffico di casa mia sono scomparsi, sotto metri e metri di bianchissima neve.

Ho conosciuto i primi erasmus già in aereoporto, ad Oslo, quando aspettavo il volo per Bergen.
Ho sorseggiato un te' caldo su un aereo da nemmeno 50 posti, di quelli vecchio stile, con le eliche.
E dai finestrini si vedevano i fiordi. I fiordi. Cazzo.
Che spettacolo incredibile.
E' come se Dio avessa disegnato le montagne con mano tremante, per paura di sporcare le acque perfette del nord del mondo. E il risultato sono forme sinuose, avvallamenti che danzano sul mare, che giocano a toccarlo e poi farsi rincorrere.
Non ho più fiato.

E poi la città, bianca, le casette di legno, i laghi, le montagne.
Un presepio. Un racconto per bambini, di quelli dove si vive felici e contenti nel paese delle fiabe.
E poi le prime trafile burocratiche, che qui in Norvegia sono tante ma anche molto veloci.

Così ho una stanza, al Fantoft.


Fantoft significa Paradiso. Ma dall'esterno può sembrare un paradiso per straccioni, uno di quei paradisi di seconda mano, dove Dio fa visita solo di lunedi e gli angeli sono di cartone, attaccati alle pareti sporche.
Però è un paradiso grande, che accoglie molti peccatori. Milletrecento camere singole, tutte arredate in legno.
A cosy place, in definitiva.

Il tipo delle chiavi mi da la 352, che è anche 350 mi dice, ma non mi spiega perchè. Dice solo che c'è stato un mezzo casino. La cosa mi lascia perplesso e mi mette un pò di timore.
Apro la porta, la 352 che è anche 350. Un odore mi punge il naso con violenza. Viene dalla cucina. Si perchè le stanza sono singole, ma la cucina è in comune, condivisa con un altro inquilino.
Frittura; cibo indiano per la precisione. Il mio coinquilino è Pakistano.
Mi accoglie con un gran sorriso e mi prepara una tazza di tè. Tè caldo, dopo una giornata con in piedi nel ghiaccio, esiste qualcosa di meglio?

Parliamo un pò, anche lui studia ingegneria informatica. Ha fatto il master qui, ora sta scrivendo la tesi.
E' un ragazzo sveglio, ha sabotato i sensori anti-incendio della sua camera per poter fumare quando vuole. Mi offre una Marlboro. La accetto volentieri, anche se ormai non fumo più.
Passiamo un'ottima serata insieme, in compagnia anche di un altro amico pakistano e di alcune ragazze. Mi cucina un paio di piatti tradizionali, buonissimi, non fosse che per il piccante eccessivo..

Oggi, università.
Introductory lectures.
In un auditorium a forma di uovo, tutto in legno, sorretto da pilastri altissimi. Sembra fluttuare nel mezzo della hall dello Student Center.
In un inglese perfetto ci spiegano come funziona l'università qui a Bergen.
Conosco tanti ragazzi, alcuni italiani, molti stranieri. Vengono da tutto il mondo, Cina, India, Francia, Spagna, Stati Uniti, Olanda...
Sono tutti prontissimi ad iniziare il semestre qui, tutti sorridenti e ansiosi di conoscere nuove persone. Ma anche tutti molto stanchi, per il viaggio che hanno affrontato.
Giornata intensa, ma gratificante. Finita con una cena italiana che io ed un amico di Bologna cuciniamo per ricambiare il mio coinquilino.
La birra costa tanto. Tutto costa tanto. Ma non mi importa. Qui mi sento davvero in paradiso.

domenica 3 gennaio 2010

Post #3, giorno -1

Ahhhhhhh gli amici.

Il giorno prima della partenza è quello più difficile. E' il giorno dell'arrivederci.
E' il giorno dei saluti, dei "ti verrò a trovare" anche se poi non ci si va mai, delle battute sui luoghi comuni dell'erasmus...
E come dirsi arrivederci se non davanti ad una bella pizza e un bicchiere di birra?
Anche considerando che li il prezzo medio di una pizza è sulle 140 corone (18 euro!!!) e la qualità..... beh lasciamo perdere.
E così bastano due telefonate, un appuntamento improvvisato, ed ecco che mi ritrovo a salutare tutte le persone a cui voglio bene. Sniff sniff. E anche sigh, sob e gulp magari. (eh si rileggendolo, l'ultimo periodo faceva troppo diariodiunragazzostupidocheparteperlerasmussoloperfareilcretino così ho smorzato i toni con le onomatopee da cartone animato!)
Qualcuno mi ha anche fatto un regalo... una ghianda, dei cioccolatini... ma il regalo più bello (non me ne vogliano gli altri!) è stato un san pietrino del centro storico della mia città, tanto per fare i vandali un'ultima sera:)
Così magari me lo metto in camera e ci cammino un pò su, per riprovare la sensazione di passeggiare per le vie di Salerno... certo, purchè mi facciano passare quelli della sicurezza aeroportuale con un pezzo di pietra da mezzo chilo nella borsa.

Ahhhhhhh gli amici.



PS: domani non scriverò, sarò a Roma tutto il giorno e poi la notte prenderò l'aereo. E sti cazzi direte voi. E sti cazzi dico io. Adieau!

sabato 2 gennaio 2010

Post #2, giorno -2

Oggi sono stato vittima dello shopping pre-erasmus.
Nient'altro da dire se non "estenuante".
Siccome vado in un paese la cui temperatura a gennaio tocca picchi di -20 gradi, e (ricordo) vivendo al Sud Italia, mi son dovuto rifare daccapo il guardaroba.
E così eccomi a comprare scarponi invernali/calzamaglie/tute da neve/maglioni di pile/guanti da sci...
Non so se avete presente che io sono un essere di sesso maschile, e come tale quelli della mia specie non sono soliti praticare questa insana attività che è lo shopping.
Come se non bastasse, oggi era anche un giorno speciale. Molto più speciale del giubileo o dell'allineamento dei pianeti. Eh si, oggi era... il primo giorno di saldi...!
T E R R O R E
P A N I C O
File disumane alle casse e all'entrata dei negozi, urla manco fossimo al mercato del pesce, gente che si piglia a capelli per accaparrarsi l'ultima taglia 40 rimasta.
Ma dico... "stamm a' for'?!?"*

Pura follia.
Vedevo tutta quella gente che andava avanti e indietro dentro un enorme centro commerciale. Era quella la nuova piazza, il nuovo centro di aggregazione; solo che non aggregava più la gente, ma la disgregava, la esplodeva fra le mille vetrine che sbarluccicavano offerte e promettevano sconti.

Allora mi sono chiesto se anche lì, dove sto andando, la gente preferisce fare la spola fra le vetrine e le offerte speciali piuttosto che vivere la bellezza che li circonda. Piuttosto che rimanere a guardare i fiordi.



*tipica espressione salernitana usata, in terza persona singolare, come dispreggiativo verso la razza umana tutta

venerdì 1 gennaio 2010

Post #1, giorno -3

Vorrei mettere le mani avanti: non sono bravo con la scrittura. Per niente.
Non c'ho mai saputo fare, con le parole. Ero quello che prendeva 6- ai temi di italiano, e la professoressa non ricordava nemmeno il mio nome.
Quindi non scocciate se i miei periodi sono contorti e tediosi, questo blog non è un esercizio di stile.
Detto ciò, questo è il preambolo:

Mancano tre giorni. Tre notti, per essere precisi. Questa più altre due.
Non ci avevo mai pensato, a scrivere un diario. Mi sembrava un luogo comune dello studente erasmus. Mi sembrava un luogo comune e basta. Ma, in fondo, lo studente erasmus E' un luogo comune.

E quindi succede che accompagno Anna Sara a casa. E piove. Tanto. Più di quanto piove di solito a Salerno (ecco che si scoprono le prime informazioni su di me, si, abito in quella striscia di Italia un pò sfortunata che io chiamo "il mezzogiorno di fuoco").
E c'è che si parla di scarpe anche se io a stento so come sono fatte le scarpe, e non ho cognizione di marche, modelli e cose simili. E si parla del fatto che lì, a Bergen (ecco il secondo indizio), piove. Ma piove tanto, più di quanto piove a Salerno oggi, che è quindi molto più di quanto sia mai piovuto a Salerno in una decade probabilmente..
E allora lei (Anna Sara) caccia fuori questa cosa: "perchè non scrivi un diario?"
e a quel punto penso "cazzo che idea originale, scommetto non c'ha mai pensato nessuno studente erasmus".
Per fortuna lei continua dicendo "come quello di Coviello, ma non censurato causa accesso aperto ai genitori" e io penso ancora (scusate, sono solito fare dialoghi in mente mentre mostro alle persone una recettività quasi passiva ai discorsi) "un diario erasmus va censurato comunque, altrimenti ci pensa la buon costume".

Così lei scende, e io metto in moto verso casa.
Parcheggio la Fiesta e penso:
"Cazzo, quasi quasi lo scrivo davvero. Il solito diario erasmus".