domenica 9 settembre 2012

Non parto non resto*


Mi sono trasferito.
Sono bastati due giorni, veloci come pugnalate.
Così veloci che non ho avuto il tempo di digerire il cambiamento.
Ho fatto le valigie, ho fimato il contratto, ed eccomi a dormire su un materasso provvisoriamente sistemato per terra, in una camera vuota come lo spazio interstellare.
Un taxi, due ore dopo, mi avrebbe portato in aeroporto, per lasciare di nuovo la Britannia nelle mani della vecchia regina.

Mentre traslocavo una grande tristezza mi saliva dentro. Ho pulito ogni angolo, tolto la polvere, svuotato i cassetti, portato le ultime valigie fuori. E ci sono rimasto anche io, fuori, a pochi centimetri dalla porta della mia stanza, a contemplare la mia assenza.
E' così che è iniziata questa tristezza che non mi abbandona da alcuni giorni. Ho visto il mondo senza di me, e me ne sono rattristato.

Ma, come dicevo, non ho avuto tempo di riflettere, sono scappato di corsa nella notte per tornare in Italia. A Bologna, questa volta, per incontrare un dottore all'ospedale di Reggio Emilia.
La città mi accoglie con amarezza: un tassista bugiardo, un venditore di coltelli, un pianista che suona temi d'amore mentre mangio in una piccola osteria del centro.
Passeggio da solo per le strade, c'è il mercato di notte, le vie sono affollate.
In Italia mi sento sempre a disagio quando cammino da solo, la gente crede tu sia pazzo o abbia grossi problemi sociali. Per questo a volte prendo il cellulare dalla tasca e lo porto all'orecchio, facendo finta di telefonare a qualche amico in ritardo che, ve lo giuro, doveva essere lì già da qualche ora, ma lui proprio niente, chissà quel mascalzone dove s'è cacciato, anche stavolta mi fa aspettare da solo, eh.
E' tutta una vita che faccio avanti e indietro, fra due città, fra due nazioni, fra due idee... Non mi sento più di appartenere a nulla, se non a questo continuo viaggio.
Sono un passeggero che ha comprato troppi biglietti perchè non sapeva dove andare: non scenderò finchè non si sarà fatta sera.



* Il titolo è preso da un quadro di Alighiero Boetti esposto al MAMBO (museo d'arte moderna di Bologna). Il quadro è in verità abbastanza mediocre (secondo i miei gusti) ma il titolo funziona molto bene.

domenica 2 settembre 2012

Il cielo sopra Parker's Piece


Le nuvole aggiungono un tocco speciale alle città.
I cieli noiosi irrigidiscono l'anima. Le nuvole invece scompigliano le idee, ancora meglio quando cambiano forma celermente.
Forse, donano profondità al cielo. O semplicemente lo rendono più vicino, più raggiungibile: più umano.
"Cos'hai fatto oggi?", mi domandate voi. "Sono stato sotto un cielo bellissimo".

(photo taken by Destiny)


lunedì 2 luglio 2012

Happy birthday Nick.


Riesco già ad impegnare le mie serate. Sorprendente.
Di certo non vado in discoteca. No. E allora, pub, concerti, tanta musica dal vivo. Perchè qui è possibile.
E' così che mi ritrovo ad un concerto tributo ad un grande cantautore inglese: Nick Drake. Diversi gruppi si alternano sul palcoscenico, ognuno con una propria reinterpretazione dei pezzi del cantautore. Si va dal folk alla new wave. E il livello è davvero alto. Ma non è di questo che vi parlerò. Dopo una breve pausa infatti, lo spettacolo ricomincia con un ospite speciale. E' un po' impacciato e all'inizio fatica a farsi strada con le parole. Quando capisco di cosa sta parlando rimango allibito.
"Nick era un buon amico" dice. "Ho condiviso con lui un'esperienza molto particolare: la sua prima registrazione".
"Studiavo per diventare tecnico del suono", prosegue, "ed avevo una piccola attrezzatura. Qualche microfono, un registratore multitraccia. Avevo già provato a registrare Nick, per gioco, ma era stato impossibile. Nella sua casa c'era troppo rumore, e lui aveva ancora i postumi della sera prima."
"La prima volta che sentii Nick suonare mi impressionò tantissimo. Toccava la chitarra con una leggerezza divina, e la sua voce si intrecciava con la musica come niente al mondo.
In quei giorni un mio caro amico era partito e la sua casa sarebbe stata vuota per un po'. Così mi decisi ad invitare Nick per una vera registrazione. Cercai di disporre i due microfoni che avevo in modo che uno prendesse solo la voce ed un altro la chitarra. Ma non era quello che lui voleva. Preferiva infatti una registrazione stereofonica di tutto dicendo che sarebbe stato lui capace di bilanciare il volume della voce e della chitarra. All'inizio ero un po' incerto, ma credetemi: sapeva esattamente quello che faceva.
Finimmo di registrare, i pezzi erano davvero molto buoni. Li ascoltai nella stanza più piccola, e quando tornai nell'atrio per congratularmi Nick era sparito. Doveva andare a trovare un caro amico e non voleva che, per qualche motivo, io ne fossi coinvolto. Era fatto così. La sua vita era come fosse divisa in tanti compartimenti stagni, e lui saltava da uno all'altro. Tutti quei compartimenti si aprirono e le persone contenute in essi si conobbero solo il giorno del suo funerale. Quel giorno mi capitò di conoscere persone di cui avevo solo sentito parlare per molto tempo.
Inviai la registrazione ad un amico produttore di Londra, e fu così che la carriera di Nick iniziò. Ma era troppo debole per reggere la vita della rock star, e sapevo che non sarebbe durato a lungo."

domenica 17 giugno 2012

Small talk



Oggi è stata una bella giornata.
Sole, un immenso prato inglese, persone sorridenti. Ma come sono arrivato fino a questo punto? Come ho fatto a conoscere queste persone?
Ripercorriamo insieme gli avvenimenti per capirne l'eziologia.
La chiave di tutto è Couch Surfing. Molti di voi lo conoscono già, non mi soffermerò quindi a spiegare cos'è (tanto c'è sempre Wikipedia). La fortuna è che a Cambridge c'è un gruppo di couchsurfers molto attivi che si riuniscono tutti i giovedì. Cos'altro ho da fare? Ci vado.
E' così che mi ritrovo circondato da più di quaranta persone di ogni nazionalità. Ognuno con la sua storia, ma nessuno che la racconti davvero. Si perchè in queste serate passi la maggior parte del tempo a fare o rispondere alle stesse tre domande:
-Come ti chiami?
-Di dove sei?
-Cosa fai qui?
E' quello che gli inglesi chiamano 'small talk'. Conversazioni informali di piccola entità. E così si parla di come ci si trova a Cambridge, di quanto a lungo si pensa di rimanere, di dove si abita. E tutte le quaranta conversazioni hanno lo stesso stampo. Terribile, direte voi. Essenziale, dico io: l'unico modo per farsi nuovi amici.
[piccolo detour]
La prima volta che sentii parlare di small talk andai subito su internet a cercarne il significato. Così finii su di un blog in cui gli utenti descrivevano la pratica dello small talk e facevano alcune riflessioni molto interessanti. Tanto interessanti e intelligenti che rimasi su quel blog per ore, passando da un thread ad un altro. Tutti gli utenti sembravano incredibilmente colti, e molti la pensavano proprio come la penso io. Mi trovavo 'a casa'!
Ho poi scoperto che era un blog per persone affette da autismo.
[fine detour]
Oltre i vari small talks ho anche avuto qualche conversazione più lunga. Un bulgaro-americano mi ha portato sulle spalle e con una polacca ho parlato di suonare vegetali.
Ho così cominciato a frequentare i couchsurfers e mi sono già ritrovato ad una jam session e ad un barbecue.

Nel frattempo in questi giorni ho anche avuto il colloquio per ottenere il National Insurance Number (l'equivalente del nostro codice fiscale). Ufficio immigrazioni strapieno, e fin qui simile all'Italia. La differenza è che non si sentiva volare una mosca e il mio colloquio è iniziato con una puntualità ineccepibile. Dopo alcune domande e dopo aver controllato tutte le mie carte, la signora che sedeva dall'altro lato della scrivania, gentilissima, mi sorride e dice: "Welcome to England Sir".
Eh già, la gentilezza non è un'abitudine dimenticata da queste parti. A volte è fin troppo formale però. Provate per esempio a prendere un autobus a Cambridge e sedete vicino all'autista. Lo noterete alzare la mano in segno di saluto verso tutti gli altri autobus che passano. Proprio tutti. Alla fine della giornata avrà crampi alle braccia che nemmeno un culturista.

Siccome stasera ho poca voglia di dormire, in questo post ci ficco dentro un altro argomento: le Charities, aka il paese dei balocchi.
Questi posti magici sono piccoli negozi che vendono vestiti e oggetti usati a prezzi letteralmente stracciati. Questo perché i precedenti possessori hanno donato i loro averi ad organizzazioni no profit come la croce rossa, la quale rivende questi beni ad un prezzo molto conveniente, utilizzando il ricavato a scopo umanitario. Semplicemente geniale. Si perché tante persone donano oggetti quasi nuovi ma che semplicemente non usano più. Così puoi trovare di tutto, dai vestiti (ho comprato una camicia ed un cappello!) alle scarpe, ai giochi da tavolo ai dvd ai mobili ai...
Ah, l'Inghilterra: che paiese!

domenica 10 giugno 2012

Business card


È passato tanto tempo, lo so. Vi avevo promesso che non vi avrei lasciato, e invece sono stato in silenzio per mesi. Ma, ahimè, sono stato colpito da una vita monotona e tediosa. Non che sia stata male, anzi. Ho avuto molte ‘felicità’. Ma non mi ha dato grossi spunti per rispolverare questo blog. Niente grossi viaggi, né avventure, né cambiamenti. Fino ad adesso.
Poi, ad un tratto, la svolta: ‘mamma, vado a vivere in UK’.
Faccio i bagagli, ed eccomi lì, mercoledì 6 giugno, sul primo aereo per Londra Stansted. Direzione ultima: Cambridge.
Di seguito vi riporto un resoconto condensato e confuso di questi ultimi giorni, condensato e confuso come le miei giornate qui.
In primis sono stato assorbito dalla frenesia della capitale: una macchina che non dorme mai, il cui ritmo è scandito dal ‘tube’, la famosa rete di vermi che divorano la città.  
Un lavoro interessante e ‘challenging’ mi aspetta, e i primi due giorni passati con Neil Daly mi fanno sperare in un futuro ad alto potenziale.
Trovare casa nella piccola cittadina di Cambridge è quasi facile: la seconda visita è quella giusta. Michele, il mio nuovo ‘landlord’, mi mostra la stanzetta al secondo piano. È accogliente, e poi la casa è una villetta decisamente ‘British’ con tanto di giardinetto annesso!
Nei viaggi Londra-Cambridge conosco Raunak, che ride al passaggio di un treno a vapore. Una bella conversazione da treno. Alla fine mi stringe la mano e mi da la sua ‘business card’. Si perché a Londra SEI la tua business card. Non puoi non averne una, è un po’ come un certificato di nascita, come un attestato della tua esistenza e partecipazione nel mondo. Riduttivo? Pensatela come volete.
A Cambridge la musica dal vivo è di casa, il sabato mi ritrovo proiettato in un ‘basement’ a vedere un bellissimo concerto. Archi, chitarre, pianoforte e voci mozzafiato. Un buon inizio direi.
Adesso, si ricomincia sul serio.

venerdì 13 maggio 2011

Post #20 - Greek-Turkish trip pt. 2: Istanbul

E adesso vi aspettate che sia fedele alla mia promessa. E che quindi vi racconti del mio viaggio durato quasi un mese fra la Grecia e la Turchia. Non credo che andrà a finire così. Non stasera. Non sono nemmeno sbronzo e non ho voglia di riepilogarvi i fatti.
Uhm. Però qualche immagine ve la concedo. Sono uno che si arrende facilmente dopotutto.
Procediamo con ordine, ovvero a ritroso.

Istanbul mi ha fatto uno strano effetto, devo ammetterlo. Pensavo che in una città abitata da dodici milioni di persone ci si sentisse persi, insignificanti, soli; insomma pensavo di sentirmi male. E invece, dopo tanto tempo, ho ritrovato quel senso di calma che ti porta a pensare: "inutile agitarsi: comunque vada, non sei nessuno".
Per prima cosa mi diriggo alla Moschea Nuova. Dentro, pavimenti e mura sono totalmente ricoperti da tappeti con ricami di tutti i colori. E' questo forse che dà alla Moschea un'accoglienza unica, e cala l'ambiente in un silenzio gradevole, non troppo vuoto e non troppo asettico.

Ad Istanbul ho passato da solo la gran parte del tempo. Le mattine i miei amici avevano altro da fare e così mi sono ritrovato in compagnia della mia amata-odiata prima persona singolare. Che tremava, per il freddo inaspettato. Ed ispido. Era un freddo ispido. Però percorrevo sereno le piccole vie piene di mercanti, soffocate dai mille colori delle spezie. Aspettate, no. E' pioggia questa? Si, è pioggia. Cazzo. Mi bagno, tanto, finchè non decido di entrare in un caffè. E' piccolo, ha tutte le pareti in legno e si fuma nargilet. Passo il mio mattino di pioggia leggendo un libro e sorseggiando un ottimo caffè turco.
La sera i locali sono pieni di facce diverse. Non potrai mai conoscerle tutte. I miei amici si orientano bene e mi portano in locali a cui non sarei arrivato da solo. Sono nascosti nei piani superiori di vecchi edifici, irriconoscibili dall'esterno. La vita si frantuma in bicchieri di vetro contenenti i più svariati alcolici.

Siete mai stati in un Hamam? Il così detto "bagno turco". Beh, è la cosa più vicina all'inferno che abbia mai visto. Appena entrato, la temperatura è così alta che fatichi a respirare. Le narici sembrano doverti esplodere di lì a poco. L'aria è rarefatta, i vapori saturano la stanza. Uomini seminudi si aggirano come anime vaganti senza una direzione precisa. Altri sono stesi su un'enorme pietra bollente di marmo circolare, subendo frizioni manuali e fregamenti da energumeni che sembrano insensibili alle temperature del posto. Il soffito a cappella ospita diverse finestre dalle quali una luce netta si proietta in fasci nella foschia della sala.
Esmet è il mio massaggiatore. Per poche lire in più mi mette apposto la schiena in una maniera che erano anni che non mi sentivo così bene. La paura dell'inferno finisce in poco più di mezz'ora. E' incredibile, ma mi sento vivo come non mai.


Sono già passati quattro giorni. Il mio pulman è diretto all'aereoporto Ataturk, quando mi giro verso il finestrino alla mia sinistra e lo vedo. Il Bosforo è lì. Ed è innocuo, indulgente, dotato di una calma innaturale. Come se per contrappasso gli abitanti di una città freneticamente viva, annegata nella fiumana di problemi-obblighi-appuntamenti, avessero ricevuto questo gigante mansueto che riposa tranquillo accasciato sui fianchi della loro terra.
E la mente si perde nel contare i grandi pescherecci che popolano lo stretto. Milioni di punti nel mare. Barche grandi che non fanno paura. Anche loro docili giganti di metallo. Di notte diventano quasi imperscrutabili. Per un momento mi ricordano le galassie: ognuna, apparentemente ferma in un universo elegante, nasconde una vita interiore che mai potrà essere rivelata all'occhio nudo di colui che guarda e sogna.

Quante poesie potrei scriverci sopra se solo mi inventassi poeta?
Credo sette.

venerdì 29 aprile 2011

Post #19, Last act in Istanbul – The voice of Theran

Dell’ultima notte del mio viaggio ho dei ricordi freschi come la lattuga in un Kebab. Per questo, comincerò dalla fine, sperando di non mistificare troppo l’inizio di questo lungo percorso.

Ero in piedi sulla soglia della porta della cucina, era la casa di T, un ragazzo Sloveno conosciuto in Grecia. Fuori dalla finestra due grattacieli dominavano la notte di Istanbul.
M aveva un pigiama corto e si agitava freneticamente passando da un angolo all’altro della cucina. Parlava un italiano inventato, in parte preso dai cartoni animati che guardava quando era piccola. Sua madre, nella sua casa nel cuore di Theran, non le aveva mai insegnato a parlare quella lingua così diversa; aveva fatto tutto da sola, iniziando a riconoscere le parole più semplici per poi, un giorno, sorprendersi di capire perfettamente la lingua dei suoi cartoni preferiti.

Quello che ho fatto l’ultima notte si riduce ad una parola: ascoltare. M parlava senza interruzioni, ed io ero avido delle sue parole. Volevo sapere tutto dell’Iran, di quella terra così lontana.
Sapete, sento di doverle qualcosa, perché le sue parole mi hanno toccato davvero, e mi hanno fatto crescere. Purtroppo, l’unica cosa che posso fare per sdebitarmi è condividere le sue parole con tutti voi, sperando che possa aiutarla nella sua causa di sensibilizzarvi, e che vi faccia cambiare un po’ le idee confuse che avete su un popolo troppo lontano dai nostri cieli tersi.

“Se non avessimo questo governo verrebbe fuori che ci sono più musulmani in Turchia che in Iran”, si appresta a dire. Eh si, perché voi pensate che quella del velo sia una scelta, e che tutti rispettino l’Islam. Questo è quello che sembra se si osserva la prima Theran, quella alla luce del sole, dove per paura della polizia le ragazze si nascondono sotto il burka e non scambiano nemmeno una parola con i ragazzi della loro età.
Ma c’è una seconda Theran. è la Theran underground, quella dove i veli non si sopportano più, dove scorre alcol di contrabbando e si organizzano feste illegali negli scantinati. È la Theran dei giovani che come fantasmi irrequieti non hanno altra scelta che bere e drogarsi al ritmo di un rock’n’roll illegale e liberatorio.
“Breaking the law”, cantavano i Judas Priest. Ma stavolta non è solo un ritornello catchy per adolescenti arrabbiati. Qui, il rock, ha ancora un senso. È ancora sinonimo di ribellione.
“L’Iran è un paese fatto al 70% di giovani, di ragazzi che non ce la fanno più. E primo o poi – dice M - scoppieremo!”.
Intanto si esce per le strade, bevendo un succo di frutta “modificato”. Lo chiamano dog liquor, liquore da cani, perché solo i cani possono bere un intruglio così. Lo travasano nelle bottiglie vuote di succhi di frutta o coca-cola, per avere il brivido di bere guardando uno sbirro negli occhi.
“Non puoi vivere un solo giorno a Theran, senza infrangere la legge almeno una volta”, continua M. Ma il vero problema sono le bugie. E’ da quando sei piccola - mi spiega - che ti insegnano a mentire. Il primo giorno di scuola ti dicono: “Mi raccomando, non dire a nessuno che papà beve”.
“Ma come? Perché?”
“Tu, non lo dire e basta”.
Così un giorno torni a casa e dici “Mamma, oggi una bambina mi ha chiesto se mio papà beve. Io ho detto di no. Sono stata brava?”.

Ma c’è anche un lato “positivo”. O quasi. Ed è il valore delle emozioni.
Se cammini con il tuo ragazzo, nelle strade di Theran, non c’è cosa più emozionante di un bacio. Un bacio? direte voi. Si, un semplice bacio. Perché, se la polizia ti vede, rischi la galera.
E allora quel bacio si trasforma in una scarica di adrenalina di cui voi Europei non avrete mai idea.
È questo il lato positivo. M adesso può apprezzare le piccole cose, andare ad un concerto senza la paura che la polizia faccia irruzione e porti tutti in galera. Poter passeggiare mano per la mano con il suo ragazzo nelle strade di Istanbul. O anche solo e semplicemente il poter camminare per strada e sentire il vento fra i capelli.

La nostra notte continua con un viaggio fra i sapori e le spezie del loro popolo. Quasi mi sembra di averle sotto le dita, di poter sentirne l’odore.
Non voglio andare a dormire. Sono troppo scosso. Eppure sono le 5 del mattino, e la notte buia di Istanbul si riempie delle voci cantilenanti che invitano alla preghiera, lassù, dall’alto dei minareti.

Vorrei solo che un giorno non dovessi più parlare di un paese dove la gente soffre una tirannia subdola e nascosta.
Vorrei solo che un giorno i concerti negli scantinati uscissero all’aperto, e le loro note scompigliassero i capelli delle ragazzine di Theran.