E adesso vi aspettate che sia fedele alla mia promessa. E che quindi vi racconti del mio viaggio durato quasi un mese fra la Grecia e la Turchia. Non credo che andrà a finire così. Non stasera. Non sono nemmeno sbronzo e non ho voglia di riepilogarvi i fatti.
Uhm. Però qualche immagine ve la concedo. Sono uno che si arrende facilmente dopotutto.
Procediamo con ordine, ovvero a ritroso.
Istanbul mi ha fatto uno strano effetto, devo ammetterlo. Pensavo che in una città abitata da dodici milioni di persone ci si sentisse persi, insignificanti, soli; insomma pensavo di sentirmi male. E invece, dopo tanto tempo, ho ritrovato quel senso di calma che ti porta a pensare: "inutile agitarsi: comunque vada, non sei nessuno".
Per prima cosa mi diriggo alla Moschea Nuova. Dentro, pavimenti e mura sono totalmente ricoperti da tappeti con ricami di tutti i colori. E' questo forse che dà alla Moschea un'accoglienza unica, e cala l'ambiente in un silenzio gradevole, non troppo vuoto e non troppo asettico.
Ad Istanbul ho passato da solo la gran parte del tempo. Le mattine i miei amici avevano altro da fare e così mi sono ritrovato in compagnia della mia amata-odiata prima persona singolare. Che tremava, per il freddo inaspettato. Ed ispido. Era un freddo ispido. Però percorrevo sereno le piccole vie piene di mercanti, soffocate dai mille colori delle spezie. Aspettate, no. E' pioggia questa? Si, è pioggia. Cazzo. Mi bagno, tanto, finchè non decido di entrare in un caffè. E' piccolo, ha tutte le pareti in legno e si fuma nargilet. Passo il mio mattino di pioggia leggendo un libro e sorseggiando un ottimo caffè turco.
La sera i locali sono pieni di facce diverse. Non potrai mai conoscerle tutte. I miei amici si orientano bene e mi portano in locali a cui non sarei arrivato da solo. Sono nascosti nei piani superiori di vecchi edifici, irriconoscibili dall'esterno. La vita si frantuma in bicchieri di vetro contenenti i più svariati alcolici.
Siete mai stati in un Hamam? Il così detto "bagno turco". Beh, è la cosa più vicina all'inferno che abbia mai visto. Appena entrato, la temperatura è così alta che fatichi a respirare. Le narici sembrano doverti esplodere di lì a poco. L'aria è rarefatta, i vapori saturano la stanza. Uomini seminudi si aggirano come anime vaganti senza una direzione precisa. Altri sono stesi su un'enorme pietra bollente di marmo circolare, subendo frizioni manuali e fregamenti da energumeni che sembrano insensibili alle temperature del posto. Il soffito a cappella ospita diverse finestre dalle quali una luce netta si proietta in fasci nella foschia della sala.
Esmet è il mio massaggiatore. Per poche lire in più mi mette apposto la schiena in una maniera che erano anni che non mi sentivo così bene. La paura dell'inferno finisce in poco più di mezz'ora. E' incredibile, ma mi sento vivo come non mai.
Sono già passati quattro giorni. Il mio pulman è diretto all'aereoporto Ataturk, quando mi giro verso il finestrino alla mia sinistra e lo vedo. Il Bosforo è lì. Ed è innocuo, indulgente, dotato di una calma innaturale. Come se per contrappasso gli abitanti di una città freneticamente viva, annegata nella fiumana di problemi-obblighi-appuntamenti, avessero ricevuto questo gigante mansueto che riposa tranquillo accasciato sui fianchi della loro terra.
E la mente si perde nel contare i grandi pescherecci che popolano lo stretto. Milioni di punti nel mare. Barche grandi che non fanno paura. Anche loro docili giganti di metallo. Di notte diventano quasi imperscrutabili. Per un momento mi ricordano le galassie: ognuna, apparentemente ferma in un universo elegante, nasconde una vita interiore che mai potrà essere rivelata all'occhio nudo di colui che guarda e sogna.
Quante poesie potrei scriverci sopra se solo mi inventassi poeta?
Credo sette.
venerdì 13 maggio 2011
venerdì 29 aprile 2011
Post #19, Last act in Istanbul – The voice of Theran
Dell’ultima notte del mio viaggio ho dei ricordi freschi come la lattuga in un Kebab. Per questo, comincerò dalla fine, sperando di non mistificare troppo l’inizio di questo lungo percorso.
Ero in piedi sulla soglia della porta della cucina, era la casa di T, un ragazzo Sloveno conosciuto in Grecia. Fuori dalla finestra due grattacieli dominavano la notte di Istanbul.
M aveva un pigiama corto e si agitava freneticamente passando da un angolo all’altro della cucina. Parlava un italiano inventato, in parte preso dai cartoni animati che guardava quando era piccola. Sua madre, nella sua casa nel cuore di Theran, non le aveva mai insegnato a parlare quella lingua così diversa; aveva fatto tutto da sola, iniziando a riconoscere le parole più semplici per poi, un giorno, sorprendersi di capire perfettamente la lingua dei suoi cartoni preferiti.
Quello che ho fatto l’ultima notte si riduce ad una parola: ascoltare. M parlava senza interruzioni, ed io ero avido delle sue parole. Volevo sapere tutto dell’Iran, di quella terra così lontana.
Sapete, sento di doverle qualcosa, perché le sue parole mi hanno toccato davvero, e mi hanno fatto crescere. Purtroppo, l’unica cosa che posso fare per sdebitarmi è condividere le sue parole con tutti voi, sperando che possa aiutarla nella sua causa di sensibilizzarvi, e che vi faccia cambiare un po’ le idee confuse che avete su un popolo troppo lontano dai nostri cieli tersi.
“Se non avessimo questo governo verrebbe fuori che ci sono più musulmani in Turchia che in Iran”, si appresta a dire. Eh si, perché voi pensate che quella del velo sia una scelta, e che tutti rispettino l’Islam. Questo è quello che sembra se si osserva la prima Theran, quella alla luce del sole, dove per paura della polizia le ragazze si nascondono sotto il burka e non scambiano nemmeno una parola con i ragazzi della loro età.
Ma c’è una seconda Theran. è la Theran underground, quella dove i veli non si sopportano più, dove scorre alcol di contrabbando e si organizzano feste illegali negli scantinati. È la Theran dei giovani che come fantasmi irrequieti non hanno altra scelta che bere e drogarsi al ritmo di un rock’n’roll illegale e liberatorio.
“Breaking the law”, cantavano i Judas Priest. Ma stavolta non è solo un ritornello catchy per adolescenti arrabbiati. Qui, il rock, ha ancora un senso. È ancora sinonimo di ribellione.
“L’Iran è un paese fatto al 70% di giovani, di ragazzi che non ce la fanno più. E primo o poi – dice M - scoppieremo!”.
Intanto si esce per le strade, bevendo un succo di frutta “modificato”. Lo chiamano dog liquor, liquore da cani, perché solo i cani possono bere un intruglio così. Lo travasano nelle bottiglie vuote di succhi di frutta o coca-cola, per avere il brivido di bere guardando uno sbirro negli occhi.
“Non puoi vivere un solo giorno a Theran, senza infrangere la legge almeno una volta”, continua M. Ma il vero problema sono le bugie. E’ da quando sei piccola - mi spiega - che ti insegnano a mentire. Il primo giorno di scuola ti dicono: “Mi raccomando, non dire a nessuno che papà beve”.
“Ma come? Perché?”
“Tu, non lo dire e basta”.
Così un giorno torni a casa e dici “Mamma, oggi una bambina mi ha chiesto se mio papà beve. Io ho detto di no. Sono stata brava?”.
Ma c’è anche un lato “positivo”. O quasi. Ed è il valore delle emozioni.
Se cammini con il tuo ragazzo, nelle strade di Theran, non c’è cosa più emozionante di un bacio. Un bacio? direte voi. Si, un semplice bacio. Perché, se la polizia ti vede, rischi la galera.
E allora quel bacio si trasforma in una scarica di adrenalina di cui voi Europei non avrete mai idea.
È questo il lato positivo. M adesso può apprezzare le piccole cose, andare ad un concerto senza la paura che la polizia faccia irruzione e porti tutti in galera. Poter passeggiare mano per la mano con il suo ragazzo nelle strade di Istanbul. O anche solo e semplicemente il poter camminare per strada e sentire il vento fra i capelli.
La nostra notte continua con un viaggio fra i sapori e le spezie del loro popolo. Quasi mi sembra di averle sotto le dita, di poter sentirne l’odore.
Non voglio andare a dormire. Sono troppo scosso. Eppure sono le 5 del mattino, e la notte buia di Istanbul si riempie delle voci cantilenanti che invitano alla preghiera, lassù, dall’alto dei minareti.
Vorrei solo che un giorno non dovessi più parlare di un paese dove la gente soffre una tirannia subdola e nascosta.
Vorrei solo che un giorno i concerti negli scantinati uscissero all’aperto, e le loro note scompigliassero i capelli delle ragazzine di Theran.
Ero in piedi sulla soglia della porta della cucina, era la casa di T, un ragazzo Sloveno conosciuto in Grecia. Fuori dalla finestra due grattacieli dominavano la notte di Istanbul.
M aveva un pigiama corto e si agitava freneticamente passando da un angolo all’altro della cucina. Parlava un italiano inventato, in parte preso dai cartoni animati che guardava quando era piccola. Sua madre, nella sua casa nel cuore di Theran, non le aveva mai insegnato a parlare quella lingua così diversa; aveva fatto tutto da sola, iniziando a riconoscere le parole più semplici per poi, un giorno, sorprendersi di capire perfettamente la lingua dei suoi cartoni preferiti.
Quello che ho fatto l’ultima notte si riduce ad una parola: ascoltare. M parlava senza interruzioni, ed io ero avido delle sue parole. Volevo sapere tutto dell’Iran, di quella terra così lontana.
Sapete, sento di doverle qualcosa, perché le sue parole mi hanno toccato davvero, e mi hanno fatto crescere. Purtroppo, l’unica cosa che posso fare per sdebitarmi è condividere le sue parole con tutti voi, sperando che possa aiutarla nella sua causa di sensibilizzarvi, e che vi faccia cambiare un po’ le idee confuse che avete su un popolo troppo lontano dai nostri cieli tersi.
“Se non avessimo questo governo verrebbe fuori che ci sono più musulmani in Turchia che in Iran”, si appresta a dire. Eh si, perché voi pensate che quella del velo sia una scelta, e che tutti rispettino l’Islam. Questo è quello che sembra se si osserva la prima Theran, quella alla luce del sole, dove per paura della polizia le ragazze si nascondono sotto il burka e non scambiano nemmeno una parola con i ragazzi della loro età.
Ma c’è una seconda Theran. è la Theran underground, quella dove i veli non si sopportano più, dove scorre alcol di contrabbando e si organizzano feste illegali negli scantinati. È la Theran dei giovani che come fantasmi irrequieti non hanno altra scelta che bere e drogarsi al ritmo di un rock’n’roll illegale e liberatorio.
“Breaking the law”, cantavano i Judas Priest. Ma stavolta non è solo un ritornello catchy per adolescenti arrabbiati. Qui, il rock, ha ancora un senso. È ancora sinonimo di ribellione.
“L’Iran è un paese fatto al 70% di giovani, di ragazzi che non ce la fanno più. E primo o poi – dice M - scoppieremo!”.
Intanto si esce per le strade, bevendo un succo di frutta “modificato”. Lo chiamano dog liquor, liquore da cani, perché solo i cani possono bere un intruglio così. Lo travasano nelle bottiglie vuote di succhi di frutta o coca-cola, per avere il brivido di bere guardando uno sbirro negli occhi.
“Non puoi vivere un solo giorno a Theran, senza infrangere la legge almeno una volta”, continua M. Ma il vero problema sono le bugie. E’ da quando sei piccola - mi spiega - che ti insegnano a mentire. Il primo giorno di scuola ti dicono: “Mi raccomando, non dire a nessuno che papà beve”.
“Ma come? Perché?”
“Tu, non lo dire e basta”.
Così un giorno torni a casa e dici “Mamma, oggi una bambina mi ha chiesto se mio papà beve. Io ho detto di no. Sono stata brava?”.
Ma c’è anche un lato “positivo”. O quasi. Ed è il valore delle emozioni.
Se cammini con il tuo ragazzo, nelle strade di Theran, non c’è cosa più emozionante di un bacio. Un bacio? direte voi. Si, un semplice bacio. Perché, se la polizia ti vede, rischi la galera.
E allora quel bacio si trasforma in una scarica di adrenalina di cui voi Europei non avrete mai idea.
È questo il lato positivo. M adesso può apprezzare le piccole cose, andare ad un concerto senza la paura che la polizia faccia irruzione e porti tutti in galera. Poter passeggiare mano per la mano con il suo ragazzo nelle strade di Istanbul. O anche solo e semplicemente il poter camminare per strada e sentire il vento fra i capelli.
La nostra notte continua con un viaggio fra i sapori e le spezie del loro popolo. Quasi mi sembra di averle sotto le dita, di poter sentirne l’odore.
Non voglio andare a dormire. Sono troppo scosso. Eppure sono le 5 del mattino, e la notte buia di Istanbul si riempie delle voci cantilenanti che invitano alla preghiera, lassù, dall’alto dei minareti.
Vorrei solo che un giorno non dovessi più parlare di un paese dove la gente soffre una tirannia subdola e nascosta.
Vorrei solo che un giorno i concerti negli scantinati uscissero all’aperto, e le loro note scompigliassero i capelli delle ragazzine di Theran.
domenica 27 marzo 2011
Post #18
Si, e ora che hai fatto tutta questa sparata del ballo, di cosa parlerai? - direte voi.
Beh - dico io - del mio nuovo erasmus.
Si, ma tu non fai nessun nuovo erasmus.
Ah, è vero... sono un controsenso vivente.
Ma, sapete, ho capito che scrivere è diventata una necessità. Per rendere concrete le mie esperienze, per essere reale, palesare la mia esistenza. Se nessuno ascolta quello che faccio, l'ho fatto davvero? E che senso ha avuto farlo?
Mi sento come un albero che cade in una foresta senza nessuno intorno. Faccio rumore?
Tralasciando la fisica del suono e la psicoacustica - per cui la distinzione fra lo spostamento d'aria e il suono è solo basata sulla presenza o meno di un ascoltatore - la mia paura è anche un'altra: quella di dimenticare i particolari.
Continuiamo a dimenticare parte delle storie che ci sono successe, il tessuto di una poltrona o l'odore di un quartiere di Lisbona. E man mano che andiamo avanti le nostre storie perdono sempre più particolari, la trama si fa sempre meno fitta...
Siamo il riassunto di noi stessi.
Quindi, che vi piaccia o no, ecco il mio riassunto: il solito diario erasmus è tornato.
Beh - dico io - del mio nuovo erasmus.
Si, ma tu non fai nessun nuovo erasmus.
Ah, è vero... sono un controsenso vivente.
Ma, sapete, ho capito che scrivere è diventata una necessità. Per rendere concrete le mie esperienze, per essere reale, palesare la mia esistenza. Se nessuno ascolta quello che faccio, l'ho fatto davvero? E che senso ha avuto farlo?
Mi sento come un albero che cade in una foresta senza nessuno intorno. Faccio rumore?
Tralasciando la fisica del suono e la psicoacustica - per cui la distinzione fra lo spostamento d'aria e il suono è solo basata sulla presenza o meno di un ascoltatore - la mia paura è anche un'altra: quella di dimenticare i particolari.
Continuiamo a dimenticare parte delle storie che ci sono successe, il tessuto di una poltrona o l'odore di un quartiere di Lisbona. E man mano che andiamo avanti le nostre storie perdono sempre più particolari, la trama si fa sempre meno fitta...
Siamo il riassunto di noi stessi.
Quindi, che vi piaccia o no, ecco il mio riassunto: il solito diario erasmus è tornato.
venerdì 25 marzo 2011
Post #17.5, Niente titoli di coda...
Credo di dovervi delle scuse. Molte scuse.
E' che quando una persona inizia a scrivere un blog si crea un contratto implicito fra la persona che scrive e i suoi lettori. E io, lo so, ho infranto questo contratto.
Vi aspettavate di essere con me quando ho visto la neve sciogliersi e mostrare l'erba verde per la prima volta. Avrei dovuto avvisarvi quando ho fatto un viaggio che mi ha cambiato la vita. E quando mi hanno trovato svenuto su una panchina, voi, avevate il diritto di saperlo.
Eppure le parole non sono riuscite a seguire il ritmo delle azioni; o io sono stato molto stupido.
E' un pò come un imbuto, non so se mi capite. Avete tante parole, troppe parole da scrivere, e volete scriverle tutte insieme, tanto che queste parole si addensano tutte all'uscita del vostro imbuto e si bloccano lì.
Solo ora che i miei sentimenti si sono raffreddati ho trovato la sistematicità di tirarle fuori ad una ad una, quelle parole.
Bene. O forse no, male. Ma comunque è questo.
E ora, che facciamo?
E' un pò come al ballo della scuola quando i ragazzi e le ragazze si osservano da lontano, sistemati in due schiere contrapposte, come plotoni allineati in tempo di guerra. Chi farà la prima mossa?
Io e voi ci osserivamo, ci scrutiamo a distanza. E' venuta meno quella fiducia reciproca e le mie parole possono essere come mine vaganti. Eppure, mi sono avvicinato, ho cercato il contatto.
Vi invito a ballare, accetterete?
E' che quando una persona inizia a scrivere un blog si crea un contratto implicito fra la persona che scrive e i suoi lettori. E io, lo so, ho infranto questo contratto.
Vi aspettavate di essere con me quando ho visto la neve sciogliersi e mostrare l'erba verde per la prima volta. Avrei dovuto avvisarvi quando ho fatto un viaggio che mi ha cambiato la vita. E quando mi hanno trovato svenuto su una panchina, voi, avevate il diritto di saperlo.
Eppure le parole non sono riuscite a seguire il ritmo delle azioni; o io sono stato molto stupido.
E' un pò come un imbuto, non so se mi capite. Avete tante parole, troppe parole da scrivere, e volete scriverle tutte insieme, tanto che queste parole si addensano tutte all'uscita del vostro imbuto e si bloccano lì.
Solo ora che i miei sentimenti si sono raffreddati ho trovato la sistematicità di tirarle fuori ad una ad una, quelle parole.
Bene. O forse no, male. Ma comunque è questo.
E ora, che facciamo?
E' un pò come al ballo della scuola quando i ragazzi e le ragazze si osservano da lontano, sistemati in due schiere contrapposte, come plotoni allineati in tempo di guerra. Chi farà la prima mossa?
Io e voi ci osserivamo, ci scrutiamo a distanza. E' venuta meno quella fiducia reciproca e le mie parole possono essere come mine vaganti. Eppure, mi sono avvicinato, ho cercato il contatto.
Vi invito a ballare, accetterete?
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